Primo maggio. Il lavoro e il senso della vita.
- Cristina Corona
- 1 mag 2018
- Tempo di lettura: 4 min

"Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono."
(Primo Levi, La chiave a stella, 1978)
Primo Levi scrisse 40 anni fa che amare il proprio lavoro è privilegio di pochi.
E' certamente vero anche oggi, anche se, almeno in teoria, vi è un maggiore possibilità di muoversi, di cambiare, di sperimentarsi. La spinta sociale/culturale sembra mettere al centro l'individuo, invitando a seguire le proprie aspirazioni, i desideri soggettivi, ad uscire dai propri schemi per sperimentarsi, in una sorta di pensiero positivo "se vuoi puoi". Si leggono tantissimi articoli di giovani visionari diventati creatori e manager di successo. Questa tensione realizzativa, che viene da un impulso interno, profondo, consente di superare le difficoltà, affrontare errori e fallimenti e crescere, tollerare l'incertezza e il rischio. Questa spinta vale per i grandi inventori, vale per il piccolo artigiano che realizza i suoi manufatti, vale per chi decide di fare il contadino o il libero professionista.
Certo, non siamo tutti uguali.
"Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza."
(R. Niebuhr)
Può tornare utile il concetto di "esame di realtà".
Il principio di realtà, sviluppato da S. Freud, indica una funzione psichica che si attiva per mitigare la spinta interna al piacere istantaneo e dilazionare nel tempo la realizzazione, tenendo conto delle condizioni ambientali; fa in modo che l'apparato motorio e psichico possa pianificare la soddisfazione di un bisogno, tollerando l'attesa e attivando le capacità di realizzazione.
Fare l'esame di realtà significa quindi trovare la propria via di realizzazione tenendo conto dei limiti, propri e delle condizioni ambientali; in altri termini, significa cercare un sentiero, che spesso è stretto e denso di ostacoli, dotandosi delle competenze e delle energie necessarie per percorrerlo.
Oggi ci sono molti strumenti per aumentare la consapevolezza di sè ed effettuare l'esame di realtà: percorsi psicologici, counseling, bilancio di competenze, coaching, test attitudinali.
Io credo che serva, prima di tutto, la capacità di ascoltarsi a livello più profondo e la sensibilità di prestare attenzione al mondo, agli altri.
I Giapponesi hanno creato il concetto di Ikigai, "la ragion d'essere", "il motivo per svegliarsi al mattino" e invitano, nella ricerca della propria realizzazione professionale, a porsi quattro domande:
1. Che cosa amo? I valori, le passioni, le spinte interne
2. In che cosa sono bravo? Le competenze, sia quella realizzative (ciò che so e ciò che so fare) sia le competenze personali (ciò che so essere)
3. Di che cosa ha bisogno il mondo? Le aree di sviluppo, le tendenze di mercato, i bisogni presenti e la previsione di quelli futuri
4. Per che cosa posso essere pagato? L'effettiva remunerabilità di un lavoro, di un progetto professionale che consenta di vivere secondo i propri bisogni.

Una volta che abbiamo preso contatto con la realtà e con le nostre parti più interne, le aspirazioni e i desideri ma anche le paure, i limiti, allora potremmo scoprire che possiamo dare avvio ad un cambiamento professionale oppure per il momento restare dove siamo.
Qui non mi riferisco a lavori che implicano sfruttamento e violazione delle leggi di diritto del lavoro. Perché in questo caso è solo necessario trovare la forza di andarsene.
Parlo di tutti quei lavori che non danno soddisfazione, che generano frustrazione e disagio.
Se il lavoro che c'è non piace, è pesante, è brutto, non c'è felicità?
Dignità e bellezza del lavoro non è solo realizzare la propria visione professionale. Certo, se questa è fattibile, non percorrere la via del rischio e della realizzazione del proprio progetto corrisponde a un "autotradimento" (Pagliarani), il tradimento peggiore, quello verso sè stessi.
Ma se l'esame di realtà dice che non è fattibile un cambiamento professionale (per ora o a lungo), non è una condanna alla infelicità.
La sfida diviene allora cercare periodicamente di trovare un senso a ciò che si fa. Un senso anche piccolo, una soddisfazione che non appare subito, ma che può essere cercata, trovata. Cercare un senso e una bellezza anche laddove sembra impossibile, senza farsi schiacciare dalla frustrazione. Chiedere aiuto, se necessario, a professionisti del benessere che possano supportare in questo percorso di scoperta, a volte molto faticoso.
Si può usare la propria creatività anche nei lavori in cui non è richiesta, scegliere di relazionarsi in modo più piacevole con i colleghi, adoperarsi per migliorare le condizioni di lavoro, senza subirle passivamente.
Perchè a volte la sfida è proprio ritrovare la bellezza in ciò che c'è già, che altrimenti la spinta dell'Io Ideale (Freud) può trasformare la vita in una perenne ricerca di ciò che mai sarà, alzando continuamente le aspettative su di sè, in una dolorosa oscillazione tra desideri irrealizzabili e senso di disfatta. Si tratta di elaborare una perdita, come un lutto, la perdita di un sogno, di una visione di sè, di un parte di aspirazioni. Si tratta di ricostruire ogni giorno, in modo attivo, l'amore per ciò che si fa e l'amore per ciò che si è, perchè la vita possa continuare nel rispetto di sè e del compito lavorativo che si sta realizzando.
Buon lavoro, buon primo maggio.

"L'essenziale è invisibile agli occhi" (A. Saint-Exupéry)
1 maggio 2018